1. Introduzione
Con la fantasia cerchiamo di creare una proiezione su San Paolo nel nostro tempo e nel contesto scolastico contemporaneo. Quale testo di base utilizzerebbe? Quale sarebbe il suo programma scolastico e quali contenuti principali offrirebbe ai suoi studenti? Quale sarebbe lo spazio che offrirebbe al dialogo con le istanze degli studenti e con quali discipline entrerebbe maggiormente in dialogo? Stimolante è una proiezione di questo tipo poiché, nonostante i millenni che ci separano dalle sue lettere, Paolo è maestro del dialogo, dell’incontro tra il vangelo e le diverse religioni, con le culture delle città occidentali che ha raggiunto per evangelizzare Cristo.
Davanti a noi si staglia l’icona del dialogo tra Paolo e i filosofi nell’Areopago, tratteggiata da quel grande narratore che è Luca, negli Atti degli Apostoli: “Ateniesi, vedo che, in tutto siete molto religiosi. Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: A un dio ignoto … Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cerchino Dio, se mai, tastando qua è là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: Perché di lui anche noi siamo stirpe” (At 17,22b-28).
La citazione riportata dal Paolo lucano è quella tratta dai Fenomeni 5 di Arato di Soli, poeta del III secolo a.C. e originario, come lui, della Cilicia. Tuttavia, lo stesso dialogo di Paolo con i filosofi è intessuto di citazioni implicite o di evocazioni mutuate dalla teodicea ellenistica del suo tempo che meritano di essere evocate.
2. Il testo di base
Come tutti i docenti, Paolo non si sarebbe presentato in aula a mani vuote, bensì con un testo ben preciso e con alcune note personali in allegato. Il libro di testo che avrebbe utilizzato per sé e per tutte le classi, dalle inferiori, alle superiori e agli atenei universitari è senza dubbio la o le Scritture d’Israele che lo hanno nutrito negli anni di formazione alla scuola farisaica di Gamaliele I, in Gerusalemme. Il suo curriculum è uno dei migliori, poiché nelle sue lettere non esita a vantarsi per la propria osservanza della Legge, secondo la tradizione farisaica: “… Circonciso all’età di otto giorni, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo figlio di ebrei; quanto alla Legge fariseo” (Fil 3,5). Poiché superava i suoi coetanei nell’esatta interpretazione della Legge e nella tradizione dei padri (cf. Gal 1,13-14) fra i suoi coetanei doveva essere noto per il suo prestigioso curriculum accademico. Tuttavia non si sarebbe presentato in classe con i filatteri, né con lo Shemah sulla fronte o al braccio, bensì soltanto con le Scritture d’Israele che, a quel tempo, comprendevano “la Legge e i Profeti” (cf. Rm 3,21), mentre nella metà del I secolo, epoca della redazione delle sue lettere, non esisteva ancora un Nuovo Testamento distinto e separato dall’Antico Testamento. Insieme alle “Sacre Scritture” (cf. Rm 1,2), avrebbe portato con sé alcuni appunti sugli avvenimenti e sulle parole del profeta di Nazareth che lo aveva ghermito (cf. Fil 3,12) lungo la strada di Damasco, sbarrandogli la strada con la luce sfolgorante del Risorto. Pochi appunti ma fondamentali poiché sarebbero stati riversati, in gran parte, dai cosiddetti sinottici nei loro successivi vangeli. Anzitutto un ricordo delle parole di Gesù durante la cena: “Nella notte in cui veniva tradito, prese il pane e dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice dicendo: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me” (1Cor 11,23-25). Quindi la drammatica invocazione di Gesù, durante l’agonia del Getsemani: “Abba, padre”, riportata in Gal 4,6, in Rm 8,15 e in Mc 14,36, prima dell’approssimarsi dell’ora nona della crocifissione. Uno spazio privilegiato avrebbe ricevuto la più antica professione di fede ricevuta e trasmessa nelle sue lettere: “che Cristo morì per i nostri peccati, secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (1Cor 15,3b-5). Avrebbe aggiunto nella sua cartella lo spartito di un canto appreso nel periodo della sua frequentazione presso la comunità giudaico-ellenistica di Antiochia di Siria; quello del carmen Christi di Fil 2,5-11 dedicato all’umiltà di Cristo Gesù: “egli, pur essendo nella condizione di Dio/ non ritenne un privilegio l’essere come Dio/ ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo/ diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo/ umiliò se stesso/ facendosi obbediente fino alla morte… Per questo Dio lo esaltò/ e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome/ perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sottoterra/ e ogni lingua proclami:/ Gesù Cristo è il Signore/ a gloria di Dio Padre”.
In rosso però avrebbe aggiunto, di propria mano, al centro del canto, “e una morte di croce” (Fil 2,8b), perché non avrebbe potuto concepire un carmen Christi senza questa glossa: una glossa che caratterizza, più delle altre, l’intero programma scolastico di Paolo, il fariseo, il diligente conoscitore e interprete della Legge, afferrato da Cristo mentre cercava di distruggere una conventicola di giudei che considerava da circa 15 anni Gesù come l’unico Signore della loro esistenza e Figlio di Dio.
Pertanto le Scritture d’Israele e l’allegato di quei pochi appunti su Gesù e sulle più antiche professioni di fede delle comunità cristiane delle origini avrebbero rappresentato il libro di testo da utilizzare per tutti i gradi di scuola in cui Paolo avrebbe ricoperto il ruolo della cattedra di religione per circa quindici anni: dagli inizi degli anni 50 alla metà degli anni 60 dopo Cristo. Certo non era nell’errore il card. C.M. Martini, quando in un periodo di acceso dibattito sui libri di testo da utilizzare a scuola propose la Sacra Scrittura o la Bibbia, comprensiva questa volta di Antico e di Nuovo Testamento, non di “Vecchio e Nuovo Testamento”, né di “Primo e Secondo Testamento”, come libro di testo. Soltanto l’Antico Testamento rinvia all’antica alleanza, che non è affatto abrogata o annullata come qualcosa di vecchio, ma che diventa nuova alleanza in Cristo, poiché solo in lui il velo è tolto di mezzo per rendere nuova e permanente l’antica alleanza (cf. 2Cor 3,1-14). Non intendiamo affatto negare l’utilità dei diversi catechismi, stilati per generazioni, o dei libri scolastici improntati sulla catechesi, ma è la Scrittura il testo che bisogna utilizzare, con particolare urgenza, nel presente: dall’asilo sino all’Università. Altrimenti gli italiani che, in genere hanno poca memoria, continueranno a negare le radici ebraico-cristiane dell’Europa, a essere eliminati di fronte ai primi quiz televisivi dedicati alla storia biblica e a confondere la Genesi con i Genesis guidati un tempo da Phil Collins. Non mancheranno i fraintendimenti e le strumentalizzazioni, ma si riveleranno nello stesso tempo, come luoghi vitali di dialogo con i nuovi areopaghi del nostro tempo.
3. Il programma
Il miglior programma scolastico non è quello che i docenti hanno in mente, in base alle loro sensibilità e alle preferenze culturali, bensì quello che scaturisce dalle particolarità e dalle specificità di ogni classe di studenti. Altrimenti, l’ora di religione continuerà ad essere disattesa e considerata come ora di svago o di relax. In una società, come quella italiana, che ignora la Bibbia non si può iniziare il programma scolastico insabbiandosi nelle vicende della Genesi o nella casistica dei libri dei Numeri o del Levitico, bensì è necessario reperire un primo livello di “fusioni di orizzonti” che apra una breccia tra i docenti di religione e gli studenti del nucleo scolastico.
Quanto mai necessario è non soltanto il dialogo interdisciplinare, su cui ci soffermeremo, bensì stilare un programma che renda accattivante e tutt’altro che approssimativa l’ora di religione. Chi sono coloro che frequentano le nostre aule? Da dove provengono e quali esigenze più profonde coltivano? Certo sarebbe disastroso dedicare un intero programma scolastico alla morale sessuale, con tutte le implicazioni del caso. Tuttavia è dalle persone che si hanno davanti che bisogna partire e non dal libro di testo, né dall’allegato di cui sopra. Quale sarebbe stato dunque il programma scolastico di quel grande comunicatore che è Paolo di Tarso?
Primo, in un’epoca come la nostra, segnata da un linguaggio cattolico che odora di sacrestia e, per inverso, dalla scarsa frequenza della Scrittura, di grande attualità è quella pagina dedicata all’amore che è 1Cor 12,31b–13,13: “E allora, vi mostro la via più sublime. Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come un bronzo che rimbomba o come un cembalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe…”. Non a caso la prima lettera di Benedetto XVI è stata dedicata a Deus caritas est, in cui l’elogio di 1Cor 13 occupa un ruolo centrale. L’impatto di questa pagina è senza confini, può essere posta a confronto con qualsiasi trattato sull’amore, a condizione però che il sostantivo agape sia tradotto con “amore” e non con “carità”, a meno che non si recuperi – ma il tentativo è compromesso dall’inizio – la portata latina della caritas. Per entrare in comunicazione con chiunque Paolo ha preferito non parlare dell’amore di Dio, di Cristo e dello Spirito, né soffermarsi sull’impulso sentimentale dell’amore, bensì dell’amore come persona e specchio di fronte al quale posso e devo valutare la mia arte d’amore. La portata sconfinata dell’amore, come persona e specchio del mio agire, risalta anche per il soggetto amante: che si sostituisca “l’io” con il “tu” o il “noi”, con “voi” o il “loro,” non cambia lo spessore e l’incidenza di 1Cor 13.
Farebbe saltare gli studenti dalla sedia l’orizzonte per cui l’amore precede e conforma l’etica, soprattutto di fronte a una visione moralistica e distorta del messaggio cristiano, vincolata ai cartelloni del “non fare” e del “non devi”! Tuttavia con Paolo bisogna scoprire la musa che ha ispirato quell’indimenticabile pagina, che si occulta in essa, ma senza la quale non avrebbe anteposto l’amore alla fede e alla speranza, né a qualunque altra virtù umana e cristiana. Alla fine dell’elogio sull’amore s’intravede lo spiraglio per scoprire la fonte ispirante della più semplice e più ardua pagina delle lettere paoline: “Anch’io sono conosciuto” (1Cor 13,12), che equivale ad “anch’io sono stato amato”.
La seconda parte del programma scolastico di Paolo è molto probabilmente dedicata all’amore di Cristo e di Dio: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo? …Io sono infatti persuaso che né morte, né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù nostro Signore” (Rm 8,35-39). Soltanto chi è stato raggiunto dall’amore di Dio in Cristo può aver dettato la pagina più intramontabile e universale dell’amore. In questa parte dell’ideale programma però non è la bontà preconcetta di Dio o di Cristo a dover essere svolta, bensì un evento che attesta come Dio non ci ama a parole o per sentito dire, bensì nell’evento più sconcertante della storia umana: la crocifissione del Figlio, poiché “Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?” (Rm 8,32). La croce per Paolo, che è sempre e soltanto quella di Cristo, non è il simbolo del dolore, né tanto meno un semplice ornamento da portare al braccio o al collo, bensì il luogo dell’amore o del “sì” di Dio e di Cristo per noi. E quanto più questa croce pone l’interrogativo paradossale del sì di Dio, tanto più ingenera nei destinatari un nuovo modo di pensare e di essere: quello che scaturisce dalla parola della croce (cf. 1Cor 1,18) e che pone a soqquadro qualsiasi altra cognizione della fede. Contro una fede fondata sul miracolistico, in cui il prodigioso è visto come condizione previa, e una tutta reclinata sulla logica dei sistemi umani, s’erge la parola della croce che spiega come “è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. Mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei sia Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,21-24). In questione non è il rifiuto a tutto campo della sapienza umana, né tanto meno dei miracoli che attestano quanto non tutto dell’umano si riduce al comprensibile, bensì l’insorgere di una sapienza radicalmente nuova e inattesa che riconosce il Trascendente come il “totalmente Altro” (K. Barth), Colui che non si lascia irretire da alcun sistema di pensiero e che costringe a rivedere qualsiasi relazione con Lui.
Giungiamo così alla terza parte del programma di Paolo, dedicata al suo vangelo che non è un libro, né tanto meno un insieme di nozioni, bensì una persona in carne e ossa, “morta e risorta per noi”, per tutti e per ognuno senza distinzioni. Gesù “Cristo, il mio Signore” è il vangelo essenziale di Paolo: colui che nell’oscurità più fitta dell’ora nona è stato reso da Dio “sapienza, per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione” (1Cor 1,30), il “sì” definitivo di Dio” per ogni persona umana (2Cor 1,20), con cui Dio ha riconciliato il mondo umano con se stesso e ha reso ogni credente ministro a servizio della riconciliazione (2Cor 5,18). Cuore dell’evangelo di Paolo è la gratuità della riconciliazione, compiuta da Dio in Cristo: una gratuità che precede, sostiene e produce ogni autentica conversione profonda dell’animo umano. Nello stesso tempo, una riconciliazione che impone a ognuno di lasciarsi riconciliare con Dio, aprendosi a un’etica della riconciliazione che esprime la novità di vita, l’essere nuova creatura e il non vivere più per se stessi ma per lui che è morto ed è risorto per noi (cf. 2Cor 5,14-15). Se la riconciliazione operata da Dio in Cristo vale per tutti senza distinzioni razziali, sociali o sessuali (cf. Gal 3,27-28), unica è la predestinazione divina, poiché tutti sono stati chiamati sin dall’eternità ad essere santi e immacolati nell’amore (cf. Ef 1,3-14). Questo è mistero divino di cui Paolo si fa annunciatore: che anche per i lontani e per i non credenti il Signore predisponga un itinerario di salvezza in Cristo, poiché colui che salva dal peccato e dalla morte è anche colui per mezzo e in vista del quale tutte le cose sono state create (cf. Col 1,15-20). In questo vangelo di Paolo non c’è spazio per una gemina o doppia predestinazione al bene o al male, di origine calvinista, ma l’intero contenuto è occupato dall’unica predestinazione in Cristo (cf. ancora K. Barth, Dommatica ecclesiale). Per questo l’uomo perfetto non è Adamo, prima del peccato, bensì Cristo dal quale abbiamo ricevuto la riconciliazione per essere creazione nuova (cf. Rm 5,1-21).
L’ultima parte del programma scolastico di Paolo dovrebbe essere occupata dal “noi” ecclesiale di coloro che, riconciliati da Dio, sono indotti a formare un solo corpo, una sola fede, un solo battesimo, una sola speranza (cf. 1Cor 12; Rm 12; Ef 4). Viviamo in un epoca in cui impera l’autogestione del religioso, l’arbitrio del proprio rapporto con l’Assoluto e ognuno sperimenta enormi difficoltà nella comunicazione e nell’instaurare relazioni permanenti. La visione ecclesiologica di Paolo è di grande attualità, poiché la Chiesa non è tanto il popolo, il tempio, il campo di Dio – espressioni appena accennate nel suo epistolario – bensì il corpo di Cristo, in cui si procede dall’unità alla diversità di carismi, ministeri e attuazioni. Non si può trattare della Chiesa senza prima aver attraversato la domanda su chi si è nella Chiesa: e soltanto con questa domanda si dovrebbe pensare alla Chiesa, altrimenti è inevitabilmente vista come istituzione economico-politica, come palazzo di potere. L’agente principale della Chiesa, intesa come corpo di Cristo, è lo Spirito, poiché a ognuno è data una manifestazione dello Spirito per l’utilità personale e comune (cf. 1Cor 12,7). Per questo lo Spirito che opera in ogni singolo è lo stesso che agisce in tutto il corpo. In definitiva non c’è prima la Chiesa e quindi lo Spirito che si pone a disposizione di qualcuno, bensì prima lo Spirito e quindi l’essere corpo di Cristo, altrimenti ci si trova di fronte ad un corpo morto e non irrorato dallo Spirito del Dio vivente.
4. Il dialogo interdisciplinare
Con quali discipline Paolo preferirebbe entrare in dialogo? A quali docenti chiederebbe di svolgere programmi interdisciplinari?
Quasi certamente il suo primo e principale interlocutore sarebbe il docente di filosofia. Non a caso, come abbiamo accennato nell’introduzione, Luca lo ritrae in dialogo con i filosofi del suo tempo e nel II secolo è stato prodotto il carteggio apocrifo di Paolo con Seneca. Nella sua evangelizzazione delle principali città occidentali, Paolo non ha esitato a utilizzare le categorie portanti della filosofia popolare o di quella cinico-stoica, rappresentata da Epitteto, Cicerone, Seneca e Marco Aurelio. Le grandi domande della filosofia antica e contemporanea, a prescindere dallo spazio che la disciplina occupa nel curriculum studiorum sono assunte da Paolo per essere interpretate a partire dal rapporto con Cristo. Il gnotis auton o il “conosci te stesso” dell’oracolo di Delfi, il ne quid nimis o il non superare il limite imposto dalla natura e dalla propria condizione umana e la via per formare il carattere sarebbero stati banchi di grandi discussioni per Paolo. Non mancano novità in questo dialogo schietto con la filosofia antica e moderna, poiché per Paolo il “conoscere se stessi” passa attraverso il crogiolo del discernimento che ognuno è chiamato a compiere con la propria coscienza (cf. Fil 1,10). Il “non andare oltre” non sarebbe soltanto richiesto dalla natura ma sarebbe filtrato dalla “analogia della fede” o dal “metro della fede” e dell’affidabilità che per ognuno è stato posto da Dio (2Cor 10,13-17). E il carattere si tempra non con l’indifferenza fine a se stessa, bensì con l’interrogativo della ricerca per quanto conta rispetto a ciò che è accessorio. E per Paolo l’unico dato che conta e che relativizza il resto è il rapporto con Cristo, il suo vivere, di fronte al quale il resto scolora e perde di consistenza. Non che disprezzasse la vita, come alcuni filosofi cinici, ma aveva compreso che se il vivere (e non soltanto la vita) è Cristo, persino il morire diventerebbe un guadagno.
La seconda disciplina con cui Paolo entrerebbe in costante dialogo è la letteratura: dalla tragedia greco-romana alla poesia. Il senso del tragico attraversa le sue lettere, a condizione che il termine sia liberato dalla contemporanea visione del tragico come ineluttabile o fatale, bensì che assuma il volto originario del tragico come domanda che coinvolge il Trascendente. Al dialogo con il tragico si deve quella pagina drammatica e fra le più attuali delle lettere di Paolo che è Rm 7,7-25: “Io non compio il bene che voglio ma il male che non voglio” (v. 19). In quella pagina echeggia il dramma della Medea di Euripide, il video bona proboque, deteriora sequor di Ovidio e di Catullo. Tuttavia l’eterno problema del bene e del male è affrontato da Paolo non per astrazione, bensì a partire dal de facto del bene e del male presenti nella vita umana. Come resistere di fronte al male? Come non lasciarsi vincere dalla legge del taglione? E come distinguere il bene dal male? Se il bene assoluto è l’amore di Cristo per noi, il male è cedere alla vendetta? Credere nel bene, nonostante non produca lo scalpore mediatico del male, è il campo in cui Paolo affronta con grande realismo il dialogo con la letteratura antica e moderna. Anche il soffrire umano verrebbe affrontato non per teoresi bensì per partecipazione. Perché i credenti che hanno ricevuto lo Spirito, che sono stati liberati dal peccato e dalla morte, sperimentano ogni giorno, come gli altri e forse in alcuni casi più degli altri, il dolore? Qui risalterebbe il paradosso della partecipazione alle sofferenze di Cristo: non del perché bensì del “per chi” si partecipa alle sofferenze di Cristo, ai gemiti di coloro che non credono sino a quelli inenarrabili dello Spirito (cf. Rm 8,14-27). Il cristianesimo non è la panacea del dolore bensì una via per partecipare della necrosi e della vita di Cristo in noi (cf. 2Cor 4,7-14).
La terza disciplina fondamentale di dialogo è l’arte: dalla pittura, all’architettura, alle molteplici forme del design contemporaneo, dove l’interrogativo sullo statuto dell’arte e della bellezza occupa un ruolo centrale. La rappresentazione visiva di Cristo crocifisso (cf. Gal 3,1) pone in crisi qualsiasi statuto dell’arte fondato sulla doxa o sull’opinione e punta verso il criterio della presenza e del riconoscimento (cf. H.U. von Balthasar). Se la croce di Cristo rappresenta uno dei centri gravitazionali dell’evangelo di Paolo, la sua apparente mostruosità anticipa la moderna negazione dell’arte fondata sui criteri oggettivi della bellezza. L’elogio del brutto e dell’apparente caducità ma della sostanziale trasformazione dell’uomo interiore occupa un posto particolare nell’estetica paolina: “Per questo non ci scoraggiamo ma, se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno” (2Cor 4,16). Contro una perdurante visione del bello che s’identifica con la doxa o del comune modo di sentire, Paolo induce a cercare nello scandalo della croce “l’unica bellezza che salva il mondo” (F. Dostoevskji, L’idiota). Dove il trascendente è presente, ma in modo nascosto e persino negativo, si trova la bellezza che permane. L’arte per Paolo è mimesi, riproduzione non di una copia originaria, propria della visione platonica, bensì riproduzione che ripresenta e rappresenta aggiungendo ogniqualvolta qualcosa di nuovo e d’irripetibile. Per questo l’etica (e non la morale) non nasce dalla Legge né dallo statuto civile o politico di una nazione, bensì dall’intimità del singolo con Cristo, dall’azione dello Spirito e dall’anticipazione di quanto permane. Appartiene a F. Nietzsche la visione del cristianesimo come intossicazione dello spirito tragico o del dionisiaco (cf. Aurora), sino a indurlo a considerare Paolo come il vero inventore del cristianesimo. Al contrario per Paolo l’etica scaturisce dall’azione dello Spirito in noi e non da un’insieme di norme prestabilite.
L’ultima disciplina su cui poniamo l’attenzione è la storia, giacché Paolo rilegge e reinterpreta continuamente la storia della salvezza, tracciata nella Sacra Scrittura che resta il suo testo fondamentale. Conferire importanza alla storia è centrale per non perdere la memoria e con commettere gli stessi errori del passato. Nello stesso tempo nella storia è veicolato il depositum fidei, la vivente e non feticistica Tradizione della Chiesa, che alimenta il presente e coordina nelle scelte da compiere per il futuro. Il radicamento nella storia induce anzitutto a non cadere in forme di xenofobia e d’intolleranza ma a riconoscere che si è tutti in condizione d’itineranza e di precariato: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2,19). L’insegnamento della storia induce a riconoscere le colpe per il proprio passato e a chiedere perdono per quanto non si doveva ma si è compiuto in nome della religione e del crocifisso. Infine l’amore per la storia induce a ricordare che Dio non ha mai ripudiato il suo popolo che aveva eletto sin da principio (cf. Rm 11,1), sostituendolo con la Chiesa. Il XX secolo è stato attraversato dal vuoto della memoria occidentale nei confronti di quanto Paolo ha dettato in Rm 9-11. Per questo J. Maritain ha scritto un’intensa riflessione su questa sezione della Lettera ai Romani: Il mistero d’Israele in cui ha denunciato forme cattoliche di antisemitismo. Se i cristiani avessero meditato su questa sezione della Lettera ai Romani sarebbero stati, comunque, meno indifferenti di fronte allo sterminio del popolo ebraico. Non si è fatto mai abbastanza per evitare la Shoah! L’antisemitismo e per inverso forme di totalitarismo politico sono sempre in agguato nei diversi contesti scolastici ed esigono vigilanza costante soprattutto di fronte a forme più o meno larvate di bullismo.
5. Conclusione
Forse in seguito a questa proiezione sul dialogo interculturale di Paolo molti docenti di religione saranno indotti allo scoramento: non è un insegnamento semplice ma che richiede un bagaglio culturale e teologico considerevole, un dialogo costante con i colleghi e con gli studenti. Tuttavia se si pensa che Paolo non parlava bene in greco, non aveva frequentato alcuna scuola di retorica, né aveva seguito un iter filosofico di rilievo, lo scoraggiamento dovrebbe lasciare lo spazio alle opportunità e alle sfide. Come gli è stato possibile superare tutte queste difficoltà nella comunicazione della fede? E come ha saputo dialogare con tutti, senza cedere a forme d’integralismo religioso o di moralismo stantio? Tutto il segreto si trova nella frequentazione delle persone che ha evangelizzato e nell’importanza che conferisce al singolo prima che al generale (cf. S. Kierkegaard), all’individuo prima che alla collettività. Da questo versante la riduzione del numero per coloro che scelgono l’ora di religione non dovrebbe essere vista come una sventura bensì come l’opportunità più favorevole per dialogare con ognuno. Nel suo DNA il messaggio cristiano pur essendo rivolto a tutti, senza escludere nessuno, parte sempre dalla singolarità per aprirsi alla totalità della condivisione della fede.
Per onestà desidero concludere con un’apertura verso la matematica, evocando il bel e drammatico romanzo di P. Giordano La solitudine dei numeri primi (premio Strega 2008). Una lettura corsiva delle lettere di Paolo permette di rilevare che il numero uno è quello che maggiormente predilige, soprattutto a causa del suo radicato monoteismo. E in quest’importanza del numero primo si coglie la consequenziale rilevanza che Paolo conferisce ai nomi di persone: le sue lettere abbondano di nomi di persone. Certamente dopo la prima lezione avrebbe imparato i nomi di ogni studente; e con i nomi, il linguaggio, la storia, il retroterra familiare e quello culturale. Forse l’unico strumento che non avrebbe utilizzato è quello del registro delle presenze o quello dei voti, perché le sue lezioni sarebbero state le più affollate e avrebbe indotto ogni studente ad attribuirsi, con onestà, la propria valutazione scolastica.